Globalizzati, omologati, tecnologici, fancazzisti, sregolati, prevedibili, adrenalinici, disconnessi.

Aquiloni senza vento.

Tu eri diverso.

L’antica arte del prendersi cura, nasce ad Atene con Ippocrate che possiamo definire a buon diritto il padre della scienza medica.

Quando alzai lo sguardo, tu c’eri.

Seduto in terza fila. Né troppo avanti, per non dare nell’occhio, né troppo indietro per non mettere distanza. Non si poteva non notarti per la mole e gli occhi magnetici da gigante buono. Di un azzurro timido, fondo, che abbracciava come una risacca. Una finestra di luce…

Il banco era troppo stretto e minuscolo per contenere le tue spalle larghe. Non facevi mai domande per non disturbare. Ma eri il primo ad arrivare, l’ultimo ad andare. Per educazione.

A ripensarci, quel primo giorno di corso, c’erano anche loro con te.

Le tue grandi scarpe, il tuo grande cuore…

In realtà le tue scarpe erano scarpini con le ali, fatti confezionare apposta per quel dieci di cuore della tua maglia di capitano.

Poi un giorno attraversasti il corridoio d’ingresso della Facoltà vestito di bianco dentro quel camice attillato. Eri immenso con le tue braccia d’albero fatte per aggregare.

Empatia è “mettersi nei panni dell’altro”. Tu li indossavi perfettamente quei panni anche se ti stavano aderenti e a malapena ci entravi dentro. Per te ci voleva un’extra-large, qualcosa dalle maniche svasate. Eri un catalizzatore di energia, di sogni. Accudimento e tenerezza diventarono la tua password.

“Curare la persona avendo riguardo agli aspetti psicodinamici della salute guardando al paziente come unità psico-fisica, è il fine dell’agire medico” era scritto nel manuale di Metodologia.

Ecco, per te quello non era un punto d’arrivo, un obiettivo formativo. Era un’intima vocazione, una “chiamata”, una voce “dentro” che veniva a bussare di notte e non ti faceva dormire. Dormire, tempo rubato alle idee per chi ha la testa zeppa di pensieri e propositi e prospettive. La tua mente era un vulcano pieno di lava incandescente, una sacca morbida dalle maglie larghe, di quelle in cui ci infili dentro infinite cose e continui a farlo e a farlo finché non ti si sfila sui bordi.

Ascoltavi, prendevi in carico con scrupolosità, con gravità religiosa.

Facevi counseling per ore. Fuori-corso, fuori-sede, fuori-rete, sfigati, segati all’esame di Gastro. E poi c’erano gli ausiliari, i tecnici, i portantini, le capo-sala, le loro ferite da fasciare con quell’azzurro di mare calmo, quello sguardo di bonaccia per smorzare una mareggiata, un dolore, per abbracciare la distanza. Non era mai inverno nella tua scapola, al caldo-umido del tuo abbraccio. Di padre, fratello, amico, compagno.

Erano persiane accecate di sole le tue palpebre quando ridevi. Quando ridevi ti mettevi la mano sul cuore.

Erano atomi felici le tue risate. Fomentavano, trascinavano. Innamoravano…E in quel blu terso d’acquario le ragazze si perdevano. Le anziane tornavano bambine, specchiandosi nello sguardo benevolo che odorava di casa. Tutte cercavano sostegno in quelle mani fatte per raccogliere, accudire, curare. Tutte sognavano di sposare l’angelo dalle ali di zaffiro e i capelli del grano.

E nelle pause fra un’anamnesi e un esame obiettivo in ambulatorio, disegnavi scenari astratti sul ricettario medico dando il via libera all’immaginazione, amante dell’invisibile privo di forme e geometria, dell’arte dei colori, inseguivi un altrove dove nessuno potesse raggiungerti.

Da specializzando cominciasti a collaborare alla stesura dei protocolli di studio messi a punto dal gruppo di ricerca di Cardiologia. Retrospettivi, prospettici, osservazionali, sperimentali.

Eri diventato uno di loro. Ti guardavo muoverti con disinvoltura e professionalità da esperto fra tutte quelle pagine di sapere così difficili da decrittare per un non addetto ai lavori. Descrivere background, obiettivi, modalità di arruolamento, end-points. Provavo un guizzo di piacere intimo e orgoglio misto a compiacimento a vederti mutare da piccolo bozzolo di larva in meraviglioso insetto dalle ali grandi di veliero.

E improvvisamente un giorno smettesti di chiamarmi prof. Iniziasti a considerarmi complice, amica, a condividere un tratto di strada, un percorso comune.

Ero addetta, in qualità di membro del Comitato etico di Sapienza a controllare gli aspetti legali degli studi, vantaggi e rischi, a esaminare i moduli del consenso informato.

Vibrazione con melodia di timbales cubani sul mio iphone 5S era il segnale che ce l’avevi fatta, che il tuo studio era pronto per essere esaminato. Il tuo numero lampeggiava sul display per avvertirmi che dovevamo scendere in campo. Eravamo una squadra, una strategia d’api. Parlavamo per ore dedicando tempo ed energie al progetto, controllando ogni passaggio, nota, espressione. E quando il protocollo veniva discusso in seduta, nessuno ribatteva, nessuno sollevava obiezioni. Rivedo la zigrinatura del sopracciglio superiore del prof. Mandelli, padre spirituale del Comitato etico, allentarsi, farsi benevola, l’inclinazione del labbro inferiore curvare in un’espressione tonda di mezzaluna. Riuscivamo a far passare gli studi con l’approvazione unanime dei componenti.

Le chiacchierate lunghe sulla traiettoria del bar, affianco al wc, fra un bidone di rifiuti e la macchinetta sfigata del caffè che sa di sciapo, che non sa di niente. Per cercare una risposta fra telai di interrogativi alla richiesta legittima di un padre di staccare il respiratore quando la vita di un figlio è diventata intollerabile. I tuoi si schierati contro i miei no. La tua libertà e autodeterminazione contro il mio dovere di vivere. E sapevo che avevi ragione tu ma non sarei riuscita mai a staccare quel ventilatore. La tua difesa sacrosanta del diritto del paziente di decidere sulla propria morte, la tua opinione del rispetto della volontà scritta in un testamento a cui opponevo la mia resistenza, la mia armatura di madre, il rifiuto di spezzare un filo di esistenza, vegetale si, ma esistenza, di lasciar partire quel bozzolo di sopravvivenza cresciuto in grembo.

Tu la vita la celebravi facendola esplodere nelle cellule come uno tsunami perché avevi scritto nei tuoi alleli che muore lentamente chi evita un’emozione da far girare la testa, chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno. Meglio l’ebbrezza di un giorno da leone, dicevi, che un’esistenza in equilibrio, piena di senso della misura, senza mordente, dove il corpo è prigioniero delle sue catene e la mente non può volare. Adrenalina pura correva dentro le tue arterie in quelle serate di innocente follia che condividevi con i tuoi compagni di vita.

E poi sei partito…hai indossato i tuoi scarpini con le ali e sei partito, senza avvisare, senza un verbo, un aggettivo.

Il tuo cuore slabbrato non ce l’ha fatta a contenere tutto quel dolore, tutto quell’amore…

Misuravi i nostri battiti con cura uno per uno, scandendo il ritmo della corsa e intanto lasciavi andare il tuo di battito senza controllo lungo discese ripide e rampicate.

La tua anima era una casa con infiniti affacci, infinite finestre per guardare il mondo. Hai curato le nostre cicatrici, medicato le ferite del cuore con garze di carezze. Non hai fatto in tempo a fasciare il tuo dolore.

La notte di San Lorenzo in cui si esprimono desideri, le stelle sono cadute tutte insieme come schegge impazzite, atomi di firmamento, come una cometa, fiammelle a illuminare il buio, tenute tutte insieme da un unico gancio, il tuo abbraccio di titano, sterminato…

Sei diventato brezza per soffiare sulle nostre vite informi, orma per fare strada ai nostri passi, battito per scandire i nostri battiti.

La tua onda anomala si solleva come un uragano sull’elettrocardiografo, sfida il cielo. E’ un tumulto, una scia di elettroni che esplode e trascina. E non la smette di moltiplicarsi. E’ un rumore di sottofondo, un guizzo dell’anima, un ghigno di rivolta.

Mariella

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